Proverbi e detti popolari di S. Angelo le Fratte – Parte 2 –

  1. Alb’r’carut’, accetta, accetta!…..

 

Albero caduto, accetta, accetta!…..

Qual è il destino di un albero caduto? L’accetta. L’albero diventa legna da ardere. Qual è il destino di un uomo che cade in disgrazia, la non curanza da parte degli altri, quindi l’abbandono e la solitudine. Non c’è più per quella persona alcun riguardo, nessuna attenzione, il suo destino, dunque, è la solitudine che ti fa morire, morendo lentamente.

 

  1. A p’ fa lu pap’ s’adda sapè fa lu sagr’stan’

 

Per saper fare il papa, occorre saper fare  il sagrestano.

Non è possibile saper fare una cosa più grande delle proprie possibilità, se non si comincia a fare esperienza dal basso. A certi risultati ci si arriva con un lungo e impegnativo tirocinio. Bisogna imparare a fare la gavetta, per essere saggi, esperti e determinati nei propri impegni.

 

  1. A pu nu mon’ch’, nun s’ chiur’ lu cunvent’

 

Per un monaco, non si chiude il convento.

Se va via un monaco, il convento continua ad esserci, si continua a dir messa, continua la vita comunitaria. Nella vita, tutti sono importanti, ma nessuno si deve considerare indispensabile.

 

  1. A pp’ San M’chel’  ‘zze tt’ sia!…

 

Per S. Michele, grazia ti sia!…..

Un’espressione usata un po’ da tutti. E’ un’esclamazione di chiara devozione a S Michele, patrono di S. Angelo, a cui si deve tutto. Secondo la devozione, non ci si deve mai mettere contro. Sotto, si cela una strana paura di vendetta da parte del Santo, se ci si mostra irriverenti. Qui occorre ricordare che, anche in altri paesi della valle del Melandro, si usa questa espressione adattandola ai santi patroni più venerati.

 

  1. A r’ ccas’ r’ sunatur’ nun s’ port’n’ s’r’nat’

 

Nelle case dei suonatori non si portano serenate.

Un tempo, si usava portare serenate sotto la finestra della ragazza che si amava, servendosi della complicità di amici. Ora portare una serenata ad una donna i cui genitori erano suonatori si presentava come una cosa stonata, anche perché il gesto appariva quasi come una forma di prevaricazione o competizione. Di qui l’ammonimento di non andare a suonare in case di addetti allo stesso mestiere. La cosa poteva essere considerata anche un’offesa, perché era un po’ come se un fabbro ferraio volesse imparare il mestiere a un suo collega. E poi bisognava stupire la propria ragazza con melodie di amore originali. Ora, in una casa di suonatori, la musica, sia pure suonata ad orecchio, non poteva essere una novità e sarebbe venuto a mancare l’effetto sorpresa..

 

 

  1. A, e, i ,o, u, mamm’ta è ‘bbecchia e nun ‘mmala cchiù

 

A, e, i, o, u, tua madre è vecchia e non serve più.

E’ una specie di filastrocca che si diceva ai bambini per distrarli e smaliziarli, quel tanto quanto basta. Il senso è che ad una certa età la madre, proprio perché è vecchia, non serve più, perché non è autonoma ed efficiente, perciò – aggiungiamo noi – era da preferire la figlia.

 

  1. Abbott’t’ ress’ lu puorch’, ca la tonza è cchiena.

 

Abbuffati disse il porco, la pozzanghera è piena.

Il maiale, soprattutto d’estate, ama distendersi in pozzanghere, intorbidandone l’acqua, senza consentire così agli altri animali di bere. Dopo aver fatto il proprio comodo, lascia la pozzanghera a chi se ne vuol servire. Più egoismo di così!….

 

  1. Abbril’, dolce dormire, l’auciedd’ a cantà e l’alb’r’ a fiorì.

 

Aprile, dolce dormire, gli uccelli a cantare e gli alberi a fiorire.

Nel mese di aprile è particolarmente piacevole dormire, per via soprattutto della temperatura, né troppo calda né tropo fredda e, dal momento che c’è il risveglio della primavera, gli uccelli cantano, svolazzando liberi ed, essendo in amore, si industriano nella preparazione del nido; gli alberi, sempre per il tepore,  si preparano alla fioritura. E’ la vita che rinasce, dopo i rigori invernali. Rinasce anche l’ottimismo nel cuore degli uomini che gustano, così, meglio, il sonno e la vita!….

 

  1. Abbusca e porta a la casa e dic’ a mamm’ta ca so c’ras’

 

Prendi le botte e portale a casa e dici a tua madre che sono ciliegie.

Un tempo, quando ci si bisticciava, in mezzo alla strada o quando il maestro ti picchiava con la bacchetta a scuola, tornando a casa, non potevi raccontare l’accaduto, perché altrimenti prendevi il resto. E, allora, mantenere il silenzio era la cosa più giusta e saggia da fare e, ad eventuali domande da parte dei genitori, riguardo a possibili  graffi o rigonfiamenti, ci si industriava a dare spiegazioni plausibili: sono caduto da una pianta di ciliegio! .. è cosa da niente! …

 

 

  1. Accir’m’ e men’m’ mmiez’ a li mej

 

Uccidimi pure, ma mandami tra i miei.

Possiamo rincorrere avventure, possiamo avere successi, possiamo avere amici di ogni genere, ma come sono cari i genitori nessun’altro. Gli altri ti possono tradire, mentire, ingannare, ma i tuoi genitori, mai. Il senso del detto è che una persona può anche essere uccisa, ma preferisce, dopo tutto, gli affetti familiari come sicura ancora a cui affidarsi in caso di bisogno, senza avere la paura di essere tradito, perché ci sono due legami forti con la famiglia: il sangue e l’affetto.

 

 

  1. A acin’, a acin s’ fac’ la mac’na

 

Chicco, dopo chicco si realizza la macina.

Un tempo, si faceva quasi tutto manualmente: si raggranellavano le olive, le fave, il grano nei campi con le mani, ricurvi sulla terra. L’obiettivo era quello di realizzare “la macina”, un quantitativo sufficiente per una molitura, o presso il mulino ad acqua per il grano o presso il frantoio per le olive. Il chicco, di per sé, è insignificante, eppure la macina è fatta da tanti chicchi. A raggiungere tale obiettivo ci vuole dunque pazienza e costanza di impegno, ma soprattutto una forte dose di abnegazione, tenendo presente che se vuoi realizzare la macina devi preoccuparti del chicco e non viceversa.

 

  1. Acqua passata nun mac’na mulin’

 

Acqua passata non fa macinare il mulino.

Fino a tutta la prima metà del 900, nell’area del Melandro,  il grano si macinava con mulini ad acqua. Di questi ve n’erano diversi un pò ovunque, degli stessi rimangono ancora oggi traccia nell’area della zona Pescara. La pressione dell’acqua azionava una serie di ingranaggi che mettevano in moto delle macine di pietra. E’ chiaro che l’acqua che era già defluita non poteva imprimere più alcun movimento alle macine. Fuori di metafora: ciò che è stato fatto non può più essere cambiato. Occorre pensarci prima di ogni scelta per evitare che energie utili possano andare sprecate. Ciò può essere fatto da giovani, non può essere fatto da vecchio. La vita bisogna coglierla al volo, nell’attimo fuggente. Se si perde il treno, lo si perde per sempre.

 

  1. Acqua r’abbril’ ogn’ stizza nu varril’

 

L’acqua di aprile, ogni goccia (frutta) un barile.

La pioggia di aprile prepara una buona vendemmia e, in genere, un buon raccolto. Tanto è importante la pioggia di aprile che addirittura una sola goccia, questo nell’immaginario dei contadini che speravano una giusta ricompensa al loro duro lavoro, poteva trasformarsi in un barile di mosto. Il barile era una sorta di recipiente di legno, realizzato da abili artigiani del posto, ove veniva posto il mosto dopo la pigiatura delle uve e trasportato nelle cantine, che, nel caso di Sant’Angelo, si trovavano a monte del centro abitato. Questo recipiente serviva anche per trasportare acqua. Le donne andavano a prenderne a valle dell’ abitato, in zona Fontana, e la portavano in casa.   Acqua corrente nelle abitazioni non ve n’era. Solo nel 1922 arrivò la condotta di acqua potabile e vennero posizionate,  nel paese, quattro fontane pubbliche: in Via Roma, Piazza dei Martiri; Fontana e Palazzo Vescovile. Ma ancora servivano i barili per portare acqua a casa. Il barile poi veniva sistemato in un posto chiamato Varr’lar, barilaio, che era un incavo nel muro con due assi di legno ricurve sostenute nel lato interno dal muro e il lato esterno da un altro asse di legno orizzontale. Su questi rotolava il barile per mescere acqua.

 

  1. Acqua r’aust’, mel’ e must’.

 

L’acqua di agosto, miele e mosto.

Anche l’acqua di agosto veniva salutata come una manna mandata dal cielo, perché creava ottime premesse per un buon raccolto di uve da cui si ricava il mosto e, di conseguenza, le api hanno da attingere dai frutti succosi e dolci, nettare per un  miele denso e saporito .

 

  1. Acqua r’ giugn’ arrujna lu munn’

 

Acqua di giugno rovina il mondo.

Se piove, nel mese di giugno, quando i chicchi della spiga di grano stanno per riempirsi, si rovina il raccolto, ma soprattutto si rovina il fieno. Se questo, per l’umidità, si ammuffisce, non è buono da dare agli animali, potrebbe in tal caso provocare gravi enterite e pericolose mastite. L’acqua di giugno è una rovina anche per le olive che passano dalla fase della fioritura a quella della legagione. L’umidità non favorisce questo processo, a causa di parassiti.

 

  1. Acqua r’ fr’var’ è na prumessa a pu lu granar’

 

L’acqua di febbraio è una promessa per il granaio.

L’acqua di febbraio potrebbe essere una promessa per un ottimo raccolto, purché non sia accompagnata da gelate o da un clima particolarmente freddo.

 

 

  1. addò fai r’ lleun’, lass’ r’ tacch’

 

Dove si taglia la legna, lì si lasciano le schegge.

Ovunque si svolge una qualsiasi attività, di questa si lascia traccia sul posto di lavoro. Ove si taglia la legna con l’accetta, sul luogo rimangono le schegge. Il senso è che quando c’è abbondanza di beni, tutti ne godono. Se c’è abbondanza di vino, tutti lo possono assaggiare, se c’è abbondanza di grano, anche  altre creature possono mangiarne. Quando si svolge un’azione  malvagia, anche in questo caso, si lasciano tracce e chi si illude del contrario, si sbaglia e, presto o tardi, se ne accorgerà.

 

  1. Addò s’ canta e addò s’ sona, nun s’ fann’ maj cos’ bbon’.

 

Dove si canta e si suona, non si fanno mai cose buone.

Quando abitualmente ci si riuniva per una tavolata o per una festa, succedeva che si alzava un po’ il gomito e poi si cantava, qualcuno suonava l’organetto, altri cantavano. Fin qui è tutto nella norma, anzi certe tavolate erano simpatiche e divertenti. Però poteva capitare che per gli effetti del vino, qualcuno cominciava ad usare le mani, e, spesso, le tavolate finivano in risse e, talvolta, ci scappava anche il morto. Perciò, era bene contenersi sia nel bere che nel mangiare. Il canto e il suono, perciò, non sempre erano sinonimo di allegria, perché talvolta potevano essere il preludio  di sangue per vecchie faide familiari.

 

  1. Addò sputa popul’ fac’ funtana

 

Dove sputa il popolo (il posto) diventa fontana.

La fontana è fatta di acqua. L’acqua è fatta di tante gocce. Orbene se un notevole numero di persone sputa nello stesso posto, il luogo diventa un pantano. Fuori dal significato letterale, si voleva dire che là dove c’è il contributo di ognuno, per la soluzione di un problema, tutto diventa più semplice, tutto diventa possibile. Se c’era da preparare, per esempio,  la festa di S. Michele, il contributo di tutti rendeva la stessa un possibile grande evento.

 

  1. Agg’ raccumannat’ r’ ppecur’ a li lup’!…..

 

Ho raccomandato le pecore ai lupi!….

Raccomandare le pecore ai lupi, si sa, significa trovarle sbranate. Se raccomandiamo una casa al ladro, si sa, la troveremo messa a soqquadro e derubata. Orbene, quando si affida qualcosa ad una persona che fiducia non meriterebbe, è un po’ come affidare le pecore ai lupi. I falsi amici si comportano come i lupi. Occorre perciò stare in guardia!….

 

  1. Agg’ ritt’ la messa a pp’ lu cazz’

 

Ho celebrato la messa per il cazzo.

Quando si lavora tanto, per guadagnarsi la giornata e poi si è costretti a spendere il compenso per qualcosa di inutile o per qualche imprevisto, è un pò come scialacquare i soldi, andando a donne. Così, addio giornata di lavoro!….Questa situazione è un po’ come il sacerdote che ha consumato il guadagno di una messa, per un incontro furtivo con una donna.