Proverbi e detti popolari di S. Angelo le Fratte Parte 3

  1. Aia r’sp’ttà lu can’ a pp’ lu patron’.

 

Devi rispettare il cane per il padrone.

Se veramente si vuole bene una persona, si rispetta anche ciò che le appartiene. Se questo non accade , vuol dire che c’è qualche risentimento con il proprietario. Ora con i galantuomini si potevano avere molti risentimenti e spesso ne facevano le spese i cani, non potendo colpire i padroni. In questa materia Freud ci andrebbe a nozze.

 

  1. Aiut’m’ a ‘mb’là lu fil a l’ach’

 

Aiutami ad infilare il filo nella cruna dell’ago.

Cucire un tempo era un lavoro che facevano tutte le donne. La prima cosa che si imparava era quello di sapere usare l’ago e cucire. Le donne anziane si servivano dei ragazzini per farsi infilare il filo nella cruna dell’ago, perché, ad una certa età, si sa, la vista vien meno e cucire era una necessità impellente, visto che quasi tutti gli abiti da lavoro, e non solo, erano rattoppati.

 

  1. Aj cangiat’ l’uocch’ a p’ la cora

 

Hai cambiato l’occhio con la coda.

Talvolta si fanno dei cambi che sono insensati, a tal punto che ciò che si lascia vale molto di più di quanto si acquista. Quanto si dice: la stupidità umana! Talvolta si scambiava una capra per un asino, una terra per un animale, una vacca per un vestito e talvolta, per le ragazze, un giovane di famiglia povera rispetto ad un altro di famiglia ricca. L’occhio, si sa è più privilegiato della coda, eppure la nostra stupidità ci porta talvolta a preferire la coda. Tant’è la saggezza umana!…

 

  1. Amm’ fatt’ cumm’ a quidd’ r’ lu cunt’….

 

Abbiamo fatto come quello del racconto.

E’ un’espressione che si usa spesso ancora oggi. E’ quasi un intercalare. Si presentano nella vita certe situazioni che sono simili a tante storie che si narrano nei racconti… Di qui, senza specificare, si usa dire “come quanto è detto nel racconto”.

 

 

  1. Amm’ pers’ lu pesc’ a p’ la fr’jtura.

 

Abbiamo perso il pesce per colpa della frittura.

Talvolta per una frittura poco accorta, si deve buttare il pesce. Spesso, per una piccola distrazione, si commettono grosse sciocchezze e si perdono ghiotte occasioni di successo in tutti i campi. Può, una parola detta, al momento sbagliato, rendere diffide i rapporti; può un’eccessiva fiscalità far perdere un affare; può una distrazione far fallire un matrimonio e così via.

 

  1. Amm’ rat’ la fessa ‘mman’ a r’ cr’jatur’

 

Abbiamo dato la fessa nelle mani dei bambini.

Il detto, pur avendo una forma volgare, dice molto bene della corruzione dei costumi. Siamo cioè diventati così permissivi che niente più è immorale, niente ci scandalizza, tutti i linguaggi in tutte le fasce di età sono consentitti. Il rapporto intimo che era considerato cosa di adulti, quindi una cosa seria, che si faceva con una certa responsabiltà, oggi è diventato un gioco, tra l’altro, questo  rasenta, spesso, la banalità, la volgarità e la violenza.

 

  1. Apprufitta r’ la sapienza e viest’t’ ra ‘gnurant’

 

Approfitta della sapienza e vestiti da ignorante.

Occorre certo essere sapiente, cioè saper adottare un comportamento equilibrato, duttile, flessibile, aperto al dialogo e, se possibile, sapere di tutto ; ma non bisognerebbe presentarsi agli altri come sapientoni, perchè l’atteggiamento potrebbe esere interpretato come un atto di superbia e potrebbe indispettire gli interlocutori.

 

 

  1. Aria netta nun ten’ paura r’ tron’t’.

 

L’aia netta non ha paura di tuoni.

Un tempo si pigiava il grano nell’aia, uno spiazzo in terra battuta, dove venivano aperti i covoni e sopra vi passavano i buoi, l’asino o altro quadrupede. Poi si passava alla ventilazione. E’ chiaro che questo lavoro richiedeva un clima asciutto e ventilato. Se pioveva era un disastro. Se l’aia era pulita non c’era d’aver paura dei tuoni. Fuori dalla metafora, chi è pulito nella coscienza non avrà paura degli imprevisti, non può aver paura degli altri, dei pregiudizi né  può aver paura di essere messo alla gogna dall’opinione pubblica.

 

  1. Aspetta ciucc’ mij quann’ fac’ l’er’va verd’.

 

Aspetta  – per mangiare  – asino mio, quando rinasce l’erba verde.

Se l’asino attende, durante tutto l’inverno,  che arrivi la primavera per sfamarsi di erba verde, muore. Spesso, noi attendiamo cose impossibili; alle volte ci promettono cose irraggiungibili. Ostinarsi a sognarle significa consumare la propria vita inutilmente senza concludere niente e l’erba verde non la si vedrà mai, proprio come l’asino che non si adegui a consumare d’inverno la paglia, cosa modesta, ma che consente all’animale di sopravvivere. Anche chi non mangia caviale, vive comunque.  Chi, per l’opinione pubblica, non è nessuno, può vivere in modo dignitoso e sereno.

 

  1. Attacca lu ciucc’ addo vol’ lu patron’

 

Attacca l’asino, dove vuole il padrone.

E’ bene ascoltare la voce del padrone, anche quando questa è sbagliata. In questa maniera, non si pagano conseguenze negative dovute soprattutto alla collera di chi socialmente è più forte. Per la povera gente, provare ad opporsi alla volontà dei signorotti locali, voleva significare subire dannose conseguenze. Perciò è bene legare l’asino dove comanda il signore. Questa è la cultura della rassegnazione che ha caratterizzato la vita della nostra gente per diversi secoli.

 

  1. Attrament’ lu mier’ch’ sturia, lu malat’ mor’.

 

Mentre il medico studia, l’ammalato muore.

Per svolgere il proprio lavoro, occorre essere preparato, perché ne va di mezzo la vita degli altri. Ogni nostra negligenza è una privazione per gli altri. Bisogna sentire il peso della responsabilità, per evitare che la convivenza civile collassi. Se il medico non fa bene il proprio mestiere, l’ammalato ha poche speranze di sopravvivere alla malattia.

 

  1. A umma, a umma!…..

 

Fare qualcosa di illecito in sordina, sena farsi scoprire.

E’ un’espressione che viene ripetutamente usata, ancora oggi, proprio perché sono particolarmente diffuse piccole e grande forme di corruzione. Passa la convinzione che, in sordina, si possono fare tanti piccoli illeciti, con la collaborazione degli altri, in cambio di favori e di silenzi omertosi. Insomma iò che è importante è che nessuno lo sappia.

 

  1. Avita fa lu pirr’t’ quant’ è gruoss’ lu cul’

 

Bisogna fare la scorreggia proporzionata alla grandezza del culo.

Talvolta pretendiamo di fare cose che vanno aldilà delle nostre possibilità, così facendo, ci facciamo del male da soli.

 

 

  1. Buss’ a d’nar’ e r’sponn’ a copp’

 

Busso a denari e rispondi a coppe.

Spesso con gli altri non ci si capiamo, oppure non vogliamo capirci, per cui ad un tipo di domanda si risponde con argomenti non pertinenti. Insomma facciano finta di non aver capito, proprio come il giocatore di tre sette  che chiede denaro e l’altro risponde a coppe.

 

 

  • C’è chi nun mangia a p’ nun cacà

 

C’è chi non mangia per non defecare.

Si tratta di avari. Ci sono di quelli che si privano di tante cose, pur di non spendere. L’attaccamento ai soldi per alcune persone è proverbiale e spesso il loro comportamento diventa oggetto di ironia e di risate da parte degli altri. Infatti, ci sono di quelli che risparmiano sul mangiare, sul vestire, sulla luce, e si lamentano continuamente di non avere soldi, anzi affermano continuamente di  essere sull’orlo del fallimento.

 

16 S’adda caccià la paglia addò mena lu vient’

 

Si deve cacciare la paglia secondo la direzione del vento.

Una volta, il grano si pigiava con gli animali, le mucche, l’asino, o si batteva con le forche di legno. Poi però bisognava ventilare il grano per separalo dalla paglia e dalla pula. Ovviamente bisognava augurarsi che tirasse il vento, ma non si poteva pretendere di cacciare la paglia contro vento. Fuori della metafora, il significato è molto più profondo. Non bisognava, secondo i nostri nonni, mai mettersi contro corrente, perché i più forti, in qualche modo, te la fanno pagare. Meglio adeguarsi e fare come fanno gli altri, cioè secondo come tira il vento.

 

  • Cacciatur’ e acchiappauciedd’ lass’n’ li figl’ pov’riedd’

 

Cacciatori e acchiappa uccelli lasciano i figli poveri

La caccia, una volta, era un diversivo solo per i signori che avevano bisogno di riempire il loro tempo libero. Per la gente semplice, andare a caccia voleva dire perdere tempo, voleva significare non dedicarsi agli impegni agricoli. Il rischio era quello di non  lasciare niente ai figli.

 

  • Cala l’uocch’ ‘nterra e guarda li fuoss’

 

Piega gli occhi a terra e guarda i fossi.

Ci sono di quelli che, nel camminare, assumono un atteggiamento altezzoso, sono impettiti, e, per darsi delle arie, guardano avanti e non vedono dove mettono il piede, così può capitare di finire in un fosso e inciampare. Molto meglio essere semplici,  guardare dove mettere il piede, per evitare brutte sorprese.

 

 

  • Camp’ a ‘ssimm’t’

 

Campi separati.

E’ un’espressione molto antica. Serviva ad invitare i suoceri a starsene per i fatti loro, senza intromettersi nelle faccende dei giovani sposi; serviva per indicare, inoltre,  di attività separate, come dire ognuno per conto suo; è bene che due fratelli si occupino di campi separati per evitare che bisticcino e così via.

 

 

  • Cann’lora chiara, marz’ e abbril’ fa j’nnar’

 

Se alla candelora, il cielo è sereno, il mese di marzo e il mese di aprile fanno come il mese di gennaio.

Era una sorta di previsione meteorologica. Dunque era molto meglio, secondo questa previsione, che alla candelora piovesse o nevicasse, perché, l’inverno, secondo questa convinzione,   sarebbe finito presto. Diversamente questo avrebbe avuto più lunga durata.   ?

 

  • Ca t’ pozza v’nì na occia ‘nganna

 

Che ti possa venire una goccia alla gola.

E’ un auspicio male augurante: la goccia alla gola significa soffocamento, quindi la morte. L’espressione esprime molta rabbia e odio e veniva usata soprattutto contro persone che si erano rese protagoniste di azioni di violenza, di furto o di calunnie.

 

  • Ca t’ pozza turc’n’jà Sant’ Runat’

 

Che ti possa torcere San Donato.

Anche questa espressione, usata molto spesso, è carica di rabbia e di odio contro quelle persone che si rendevano protagoniste di azioni di cattiveria. S. Donato è padrone della rabbia, dunque solo lui, secondo lo spirito popolare, può “torcere” le persone cattive.

 

  • Casa aggiustata, mort’ pr’parata.

 

Casa aggiustata, morte preparata.

La casa aggiustata non può essere tanto sicura quanto quella di nuova costruzione. Se poi l’intervento di riparazione è fatto male, la morte è un’ipotesi probabile. E poi chi ci dice che con la casa aggiustata viviamo a lungo?

 

  • Caurar’ a cu caurar’ nun s’ teng’n’.

 

Caldaie con caldaie non si tingono.

Le caldaie, si sa, tra loro non si tingono, o se lo fanno non si nota, perché sono entrambe coperte di fuliggine. Fuori della metafora, uomini della stessa pasta, della stessa condotta morale, non si contrastano, non si fanno del male, perché sanno di aver bisogno l’uno dell’altro, oppure si temono reciprocamene per rivalse di carattere personali o per eventuali tradimenti. Ognuno dei due sa dell’altro, ognuno dei due evita l’altro perché reciprocamente si temono  Allora, da questi meglio stare alla larga! …

 

25  Chiacch’r’ ‘nnanz’ furn’ e p’rdenza r’ pan’

 

Le chiacchiere davanti al forno e perdita di pane.

Un tempo il pane lo si faceva cuocere nel forno pubblico. Se però davanti al forno ci si metteva a chiacchierare, il rischio era quello di bruciare il pane. Dunque parlare troppo non depone bene, anzi molto meglio il silenzio ed intervenire solo al momento opportuno.

 

  • Ciucc’ vecch’ nun cambia carrar’

 

L’asino vecchio non cambia sentiero.

L’asino anziano non cambia strada, perché è fedele alla sue abitudini e, soprattutto, è sicuro del percorso. Orbene gli anziani sono legati alle loro abitudini e distoglierli è impresa difficile per non dire impossibile. Essi sono sicuri del loro modo di essere, delle loro scelte e sono severi nel giudicare i giovani, perché questi adottano modi di fare diversi dai loro e soprattutto li vedono volubili.

 

  • Cazz’ cumm’ coc’

 

Cazzo, come scotta!

Bisogna sottolineare che la parola cazzo, in vernacolo, non viene tanto usata per indicare l’organo genitale maschile ma, soprattutto, viene usata come rafforzativo. Scotta, ma se scotta molto, occorre renderne l’intensità con l’etimo cazzo.

 

  • Cazz’ vaj e cazz’ tuorn’

 

Cazzo vai e cazzo torni.

Se ti presenti a casa di un altro per fargli visita  senza niente, (con le mani in mano) vorrà dire che te ne torni a casa a mani vuote, perché si sa alla cortesia si risponde con la cortesia. E’ proprio così, se non offri niente te ne torni a casa proprio come un cazzo.

 

  • Cazz’ cucuzziedd’ e ov’

 

Cazzo, zucchini e uova.

L’espressione viene abitualmente usata, quando si è consumato un pranzo alquanto magro.

 

  • Cchiù ‘ncoppa vai, cchiu l’azzuop’ pigl’

 

Più in alto vai, più la caduta è pericolosa.

Gli uomini vogliono di più, sempre di più e non si accontentano mai di quanto hanno raggiunto. Però bisogna stare attenti perché quanto più si va in alto tanto più la caduta diventa dolorosa, se non addirittura mortale. Se cade un contadino non succede niente, povero era e tale rimarrà, di lui nessuno si cura; ma se un uomo di stato sociale elevato commette una sciocchezza, di lui parla il mondo intero e viene messo alla gogna. Non so se costui, in simili circostanze, può dirsi felice?!… Una persona ricca, gode della sua posizione, ma teme continuamente di perdere i suoi beni. E’ felice?…

 

 

  • Cchiù pecora t’ fai, cchiu lup’ t’ mang’n’.

 

Più ti fai pecora e più  i lupi ti mangiano.

Si sa i lupi mangiano le pecore. Questi, secondo la tradizione popolare, erano considerati come  animali da temere e perciò da abbattere. In verità, un tempo, nelle nostre terre, il lupo faceva vermente paura sia per i danni che arrecava alle greggi, ma anche perché attaccava, in caso di appettito, l’uomo. Fuori dalla metafora, l’espressione vuol dire che non bisogna mai assumere un atteggiamento di sudditanza nei confronti dei più forti, sopratuto nei confronti dei signori o delle autorità, perché questi, se si accorgono che ti sottometti, ti sfruttano con spietato cinismo.

 

  • Cchiù nun fai nient’, cchiù nient’ vo fa.

 

Più non fai niente,  più ti passa la voglia di lavorare.

La negligenza genera negligenza, al punto che l’uomo non riesce a fare neanche le cose più abituali per la propria sopravvivenza, come cucinarsi, farsi le pulizie personali e le faccende di casa. Col tempo, poi, il non far niente diventa una malattia , difficile da debellare, al punto da ritenre che il lavoro sia risevato solo ai « cafoni » o agli sciocchi.

 

  • Cert’ bbot’ t’hai vest’ ra fess’

 

Certe volte ti devi vestire da sciocco.

Non si può sempre correggere l’altro, perché questi finisce per evitarti. Non puoi sempre presentarti agli altri come colui che conosce tutto, perché ti eviteranno. Allora per non indisporre l’altro, è molto meglio presentarsi da sciocco, come colui che non sa e chiede spiegazioni. L’altro è soddisfatto, chiuso nella sua presunzione di sapere, e tu ti arricchisci di qualcosa che non sapevi.

 

 

  • Che! .. tien’ la cora r’ paglia?!.

 

Che! … tieni la coda di paglia?!..

Questa esclamazione viene usata in tutte quelle circostanze in cui qualcuno, di fronte ad un giudizio  vago e generale, si risente e si indigna. Insomma ad una certa valutazione, pur non essendo rivolta a lui, reagisce come se ne fosse coinvolto. La coda di paglia, si sa, facilmente prende fuoco, così come si indigna chi si sente coinvolto nei giudizi altrui, perché sembra venir meno la maschera di copertura che si è costruito.

 

35  Chi ferra ‘nchiova

 

Chi mette il ferro  (all’asino),  deve inchiodare.

Fuor di metafora: non esiste lavoro che non abbia le sue difficoltà o non richieda sacrifici. Un tempo si mettevano i ferri a forma di U ai piedi degli asini e dei muli (entrambi venivano usati come bestie da soma) per evitare che si deformassero le unghie dei piedi. Questa deformazione faceva  scivolare l’animale, soprattutto quando era carico, e in più  rischiava di azzopparsi. Questo genere di attività veniva svolto dal fabbro ferraio. Ora si può mettere il ferro senza la fatica  e l’abilità nell’utilizzo degli arnesi? No. Qualunque attività richiede sacrifici, lavoro, costanza  e abilità nell’utilizzo degli arnesi del mestiere.

 

  • Chi ‘mpresta, lu cul’ li resta.

 

Chi effettua dei prestiti, gli rimane, dopo, solo il culo.

Non è un buon affare prestare soldi, perché quasi sicuramente non ti vengono restituiti. Prima, questo succedeva più facilmente. Per cui, al prestatore cosa  rimane del prestito? Il culo, appunto!…

 

 

  • Chi lassa pan’ e cappa, si nun ten’ uai s’ r’accatta

 

Chi lascia il pane e il cappotto, (quello  a ruota), si predispone a diversi problemi di sopravvivenza. La preveggenza non è mai troppa.  Munirsi di pane pr nutrirsi e del cappotto per difendersi dal freddo. Ciò significa essere vaccinato alla vita e ai tanti imprevisti che essa ci procura.