Proverbi e detti popolari di S. Angelo le Fratte Parte 4

 

  1. Chi ala, poch’ val’.

 

Chi sbadiglia, vale poco.

Per i nostri nonni, mangiare tanto era sinonimo di salute. La persona che mangiava poco voleva significare che non stava bene e quindi disponeva di poche forze per lavorare. Lo sbadiglio era considerato frequente in tutte quelle persone che o mangiavano poco o non mangiavano per mancanza di beni di prima necessità. In tal caso, lavorare era un serio problema. Lo sbadiglio era considerato sinonimo di sonnolenza, di indolenza, di appetito. In tutti questi casi, la persona non era comunque efficiente.

 

  1. Chi bella vol’ parè, guaj e pena adda passà

 

Chi vuole apparire bella, deve subire guai e pene.

L’istinto di apparire belli è forte quanto quello di sopravvivenza. Questo bisogno però ci fa fare sacrifici impensati o impensabili. A volte, soprattutto le ragazze si sottopongono a vere e proprie torture, pur di correggere qualche anomalia del proprio corpo. Pensiamo alle diete forzate, agli interventi di chirurgia estetica, il tutto per apparire belli, per mendicare da parte degli altri un attimo di attenzione.

 

  1. Chi figl’ bell’ vol’ fa, mazz’ e panell’ nun hanna mancà.

 

Chi vuol fare figli belli, non deve loro far mancare pane e mazzate.

Questo detto popolare si colloca nella logica, secondo cui, il bambino è un soggetto da domare più che da educare. Così prima si impartiva l’educazione, con le mani, i calci, la cinta dei pantaloni e il maestro con la bacchetta. Se si commetteva qualche sciocchezza nessuno sfuggiva alle mazzate. I genitori e il maestro, abitualmente, usavano la bacchetta e se ne vantavano. Se c’era qualche famiglia che non adottava lo stesso sistema, quella, dall’opinione pubblica, era considerata sbandata.

 

  1. Chi ten’ sold’ e non sap’che n’adda fa, accatta puorc’ e r’ ‘ddaja a guardà.

 

Chi tiene soldi e non sa che farsene, compri maiali e li dia a guardare.

Ci sono persone che di soldi ne hanno in abbondanza. Queste  usano il loro danaro per dedicarsi ai bagordi, ai vizi. Sarebbe molto meglio utilizzarli per cose più utili sia per lui che per gli altri, come quello di comprare porci, in altri tempi, una vera ricchezza per sé e per gli altri. La persona ricca non è un danno per la società, purché metta a servizio, della stessa, i suoi beni.

 

 

  1. Chi ten’ viz’j in gioventù, quann’ è vecch’ nun n’ ten’ cchiù

 

Chi tiene vizi in gioventù, quando è vecchio non ne ha più.

In gioventù si possono avere tanti vizi e in parte soddisfarli. Ma, in vecchiaia, i vizi sono solo un lontano ricordo. Mancano le forze per poterli inseguire.

 

 

  1. Chi lava la cap’ a lu ciucc’, perd’ tiemp’, acqua e sapon’

 

Chi lava la testa all’asino, perde tempo, acqua e sapone

Non ha senso lavare la testa all’asino, tanto se la sporca subito e quindi si spreca tempo e sapone. A che serve ostinarsi a impartire insegnamenti  a persone che non vogliono essere ammaestrati?!  Si perde tempo. A che serve esortare le persone a comportamenti civili, quando amano vivere per se stessi?!… a che serve dire all’ubriacone non bere?  E’ perfettamente inutile?!…

 

  1. Chi lassa la via vecchia a p’ la nova, sap’ quidd’ ca lassa, ma nun sap’ quidd’ ca trova.

 

Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa cosa lascia, ma non sa cosa trova.

La strada vecchia la conoscono tutti, e tutti conoscono i lati positivi e i lati negativi della stessa. La strada nuova non la si conosce ancora. Sarà scorrevole, o presenterà disagi ancora peggiori di quella vecchia? Allora chi lascia il vecchio sa cosa lascia, ma non può dire di sapere il futuro e questo, spesso, riserva brutte sorprese.

 

  1. Chi nun è mm’tat’, cumm’ ciucc’ è chiamat’

 

Chi non è invitato è chiamato asino.

Un tempo i pranzi di matrimonio si facevano in casa, e, a sera, mentre si ballava, alcuni, per appetito, pur non essendo invitati si presentavano al matrimonio. C’era, per compassione, sempre qualcosa da rimediare. Questi intrusi non venivano cacciati, ma tutti venivano considerati come poveracci da compatire.

 

  1. Chi mangia ra sul,’ s’affoca.

 

Chi mangia da solo, affoga.

Chi mangia da solo, senza invitare il vicino, manifesta un atteggiamento di marcato egoismo. Questa persona appare scortese, superba ed asociale. Per questo, chi mangia da solo, senza invitare il vicino, devrebbe affogarsi. Presso i nostri contadini era fortemente sentito il senso dell’ospitalità, pur nella ristrettezza dei beni. Era da vergognarsi non offrire un bicchiere di vino e un pezzo di pane a chi ti faceva visita.

 

  1. Chi mor’ a cu li fung’, fess’ a chi lu chiang’

 

Chi muore con i funghi, è stupido  colui che lo piange.

Mangiare funghi, un tempo, era considerata una cosa molto pericolosa, anche perché nessuno poteva vantarsi di una sicura conoscenza micologica. Perciò, date le incerte conoscenze, era bene non mangiarne o mangiare quelli sicuri. Chi  faceva abuso di funghi senza conoscenza rischiava la vita.  La morte costui se l’era cercata. Allora perché piangerlo?!…

 

 

  1. Chi ‘mpresta mai s’assesta

 

Chi presta, non si assesta mai.

Chi presta deve far conto di perdere tutto. Infatti non sempre gli viene  restituito ciò che ha messo a disposizione degli altri. Quindi non si assesta mai, perché sarà costretto a ricomprare quello che già possedeva.

 

 

  1. Chi nasc’ tunn’ nun pot’ murì quadr’

 

Chi nasce rotondo, non può morire quadrato.

Questo è il destino dell’uomo: chi nasce povero non potrà mai diventare ricco. Chi nasce cafone non potrà mai morire signore. C’è, in questo detto, una sorta di rassegnazione che ha condizionato le popolazioni locali per diversi secoli. I nostri contadini, per tanto tempo, hanno subito le vessazioni dei signori del posto. Sognare il riscatto sociale, nel passato, non era cosa possibile.

 

  1. Chi nasc’ piecur’, scannat’ mor’

 

Chi nasce agnello, scannato muore.

Qual è il destino di un agnello, è quello di essere scannato per diventare cibo. Qual era il destino di un povero contadino, essere scannato tutti i giorni: quando pagava il fitto, quando andava a raggranellare le olive negli oliveti  dei galantuomini e in tante altre circostanze.

 

  1. Chi nun cura nu sold’, nun bal’ nu sold’

 

Chi non cura un soldo, non vale un soldo.

La miseria era tanta che guadagnare moneta e mettere da parte un po’ di risparmio era cosa quasi impossibile. Per questa ragione, la parola d’ordine era risparmiare. Così venivano educati i giovani e li facevano crescere con la paura di cadere in povertà. Occorre conservare, non si sa mai, in caso di bisogno, c’era dove attingere!…

 

  1. Chi passa e nun saluta, ogn’ pass’ è na caruta.

 

Chi passa e non saluta ogni passo è un caduta.

Salutare una persona è buona educazione. Prima ci tenevano tantissimo al saluto. Chi non lo faceva non era ritenuta una persona affidabile ed educata, anzi era considerata una persona da cui guardarsi. Per chi mancava il saluto, era auspicabile, perciò,  che inciampasse ad ogni passo, !… Solo così si sarebbe reso conto di essere come gli altri.

 

  1. Chi lu pesc’ s’ vol’ mangià, la stola s’adda ‘mbonn’

 

Chi vuole mangiare il pesce si deve bagnare il camice.

Chi vuole mangiare il pesce se lo deve pescare, bagnandosi. Costui non può pensare che qualcuno glie lo regali. Precisiamo, prima, il pesce non arrivava dal mare nelle aree interne. Si mangiava il pesce delle fiumare e quindi lo si mangiava raramente. Mangiare il pesce era un lusso che se lo poteva permettere solo pochi. Questi, però, lo doveva saper pescare, bagnandosi gli indumenti che abitualmente indossavano.

 

  1. Chi pratt’ca lu zuopp’, ‘n cap’ r’ l’ann’ ‘ng’ vaj

 

Chi frequenta lo zoppo, nel corso dell’anno ci va.

Noi subiamo i comportamenti delle persone che frequentiamo. Di essi acquisiamo gusti, modi di parlare, modi di vestire, imitiamo comportamenti ed abitudini. Dunque se frequentiamo una persona che ruba impariamo a rubare, se frequentiamo ubriaconi, impariamo a bere in modo smodato. Per questo, chi frequenta lo zoppo non può che imparare a zoppicare per sentirsi come gli altri.

 

 

  1. Chi rorm’ nun piglia pesc’

 

Chi dorme non piglia pesce.

Colui che dorme non porta niente a casa e la tavola  sarà povera di beni. Il detto nasconde un chiaro invito a lavorare e a non perdere tempo. Ma soprattutto ricorda, in modo eloquente, quando i nostri nonni si alzavano prestissimo la mattina, prima che sorgesse il sole, per recarsi nei campi e, dopo aver fatto diversi chilometri a piedi, dedicarsi alla lavorazione dei terreni, perché entro il 15 del mese di agosto di ogni anno, bisognava pagare il fitto ai galantuomini, e sperare che, dopo tutto, rimanesse qualcosa per loro. Andavano al lavoro le donne anche se incinte o con i bambini che viaggiavano a dorso d’asino, vi andavano i giovani costretti ad alzarsi presto e vi andavano i mariti per guadagnare qualche tozzo di pane. Tutti scalzi o con scarpe fatte con la cotica di maiale, altrimenti chiamate scarpun’.

.

  1. Chi sap’ f’là, fila pur’ a lu scur’.

 

Chi sa filare, lo fa anche all’oscuro.

Chi sa filare la lana, lo fa anche all’oscuro. Bisognava saperlo fare all’oscuro, perché, nelle abitazioni, non c’era luce. Per le strette necessità venivano utilizzati lumini ad olio e, più tardi, lumini a petrolio. Ma bisognava risparmiare e allora era meglio spegnere i lumini. Così si imparava a filare la lana anche all’oscuro. Il detto poi ha assunto anche altro significato: chi sa fare un determinato mestiere lo sa svolgere anche in condizioni proibitive.

 

  1. Chi sap’ legg’, legg’ pur’ all’ammersa

 

Chi sa leggere, legge anche nel senso contrario.

Un tempo, pochissimi sapevano leggere. Ma chi lo sapeva veramente fare, di fronte ad un testo, era in grado di leggere e dare spiegazioni. I tanti analfabeti vedevano in costui una persona straordinaria, fuori dal comune e qualcuno cominciò a sognare di andare a scuola. Chi sa leggere, un testo lo codifica  anche a ritroso.