La dialettica hegeliana

Hegel considera la dialettica come legge universale; una legge che regola la realtà intera. Bisogna, però, subito precisare che, per il pensatore, “tutto ciò che è  reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale.” La realtà, dunque, è pensiero, senza il quale tutte le cose non avrebbero senso, proprio come gli oggetti, nella notte fonda, non si distinguerebbero tra loro. Dunque il pensiero crea le cose al punto di dare significato ed essenza alle stesse. In pratica, se tutte le cose esistessero, a prescindere il pensiero,  le stesse non avrebbero alcun senso. In questa maniera, Hegel pensa di abbattere il dualismo kantiano tra conoscenza fenomenica e possibile conoscenza noumenica, fra determinismo nella conoscenza e libertà nell’azione morale. Per Kant il pensiero formula giudizi e conosce il mondo fenomenico, adattandolo alle forme a priori della sensibilità, ovvero spazio e tempo; per Hegel, invece, il pensiero crea le cose e la loro noumenicità; crea e dalla creazione nasce l’essere.  Il pensiero, però, non crea le cose cristallizzandone le essenze, ma attraverso un processo dialettico triadico, arricchisce e orienta continuamente il sapere, le attività degli uomini e della storia, eliminando le contraddizioni e le determinazioni del finito, nello spasmodico tentativo di cogliere l’infinito che è mai definitivamente raggiungibile. La gemma di un albero non è fine a se stessa, essa si nega nel fiore che è, a sua volta, la negazione, il superamento e la conservazione della gemma,  la verità trova temporanea concretizzazione e consapevolezza nel frutto che supera l’astrazione della gemma e la negazione del fiore per trovare sintesi nel frutto. Questo, a sua volta marcirà e darà vita ad un’altra pianta che supera e conserva quella di appartenenza. Supponiamo di un amore finito male. Il primo incontro lo si vive come momento magico, perché si vede nell’amore qualcosa che non esiste, quindi astratto, poi la delusione e la negazione dell’amore con l’odio e infine la consapevolezza che l’amore non può fare a meno dell’odio per essere più maturo, più ricco di sensibilità onde evitare la determinazione dell’odio o dell’indifferenza. Se un servo obbedisce al suo padrone, è costretto a farlo, ma obbedendo, impara, al punto che il signore si fiderà ciecamente del servo e lascerà fare tutto a lui;  arriverà il giorno in cui il padrone dipenderà dal suo servo. Ciò è paradossale, ma vero!….Ora poniamoci la domanda: chi è libero? Il servo che obbedisce, imparando dialetticamente dal signore o il signore che finisce col dipendere dal servo, perché, nel frattempo ha disimparato tutto? La risposta è chiara: il servo, coll’essere schiavo, diventa signore della sua  vita, perché ha il suo polo dialettico nella figura del signore. Certo la libertà è una meta che non si finisce di raggiungere, ma è chiaro che la libertà nasce dalla schiavitù, perché senza di questa non ci sarebbe la spinta per il superamento della tirannia.  Per Hegel, niente avviene in un modo lineare, ma tutto in mondo dialettico, attraverso il superamento del negativo che è importante quanto  positivo. Supponiamo di un atleta: può vincere la medaglia se non c’è un ostacolo da superare, se non c’è un avversario con cui competere? Insomma non ci può essere vittoria senza ostacolo, come non ci può essere  pace senza  guerra. Potremmo anche dire, proiettandoci in avanti rispetto alle coordinate temporali di Hegel,  che mai sarebbe nata la repubblica italiana senza l’esperienza del fascismo e mai si può desiderare la pace se non dopo l’alienazione della tirannia o della guerra.  Ogni  superamento, ovvero ogni sintesi, non può mai essere definitiva e il processo va sempre dal finito verso l’infinito e viceversa; potremmo dire, rubando alcune categorie alla teologia cristiana, che l’assoluto hegeliano si incarna continuamente nella storia e continuamente risorge dal finito dopo la crocifissione e l’esperienza alienante del finito. In estrema sintesi, diciamo che dalla coscienza, come tesi, si passa all’autocoscienza, come antitesi, e alla ragione come sintesi. Queste le trame del finito. Ma anche la storia è incarnazione del pensiero, perché l’economia è pensiero, le leggi sono pensiero, la morale è  pensiero e corre su una infinità di processo dialettici riconducibili a tre poli dialettici principali: eticità, cultura e moralità. Il pensiero trova la sua alienazione nella fuga dal mondo, di qui la storia anche come storia di religioni e poi la sintesi e la sua massima consapevolezza nella logica, il pensiero in sé; nella filosofia della natura come negazione, il pensiero fuori di sé, e poi nella filosofia dell’assoluto, il pensiero che ritorna in sé. Lo stato hegeliano è l’incarnazione dello Spirito Assoluto trascendentale e universale, nel suo momento oggettivo,  perciò garanzia della famiglia e della società. La sintesi universale e trascendentale dell’assoluto si esprime nell’arte, nella religione e nella filosofia che rappresenta la consapevolezza massima di un popolo, di una civiltà o addirittura dell’intera umanità. Ma niente si placa, niente si arresta e tutto naufraga perché ogni sintesi rimanda ad un’altra odissea. Qual è, dunque, l’essenza della vita? Eccola: un eterno e drammatico viaggio verso una meta che non esiste, perché qualora questa esistesse, il viaggio stesso si interromperebbe e l’avventura cesserebbe, svanirebbe il mistero che ci ammalia.

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