La mia infanzia

Mi raccontavano i nonni che da bambino, mi cullavo da solo. Già da piccolissimo ho dovuto fare da solo. Per trastullarmi, mi dondolavo in una rozza culla, la naca. Mi dimenavo – raccontavano i nonni – muovendomi con ritmi veloci quasi nella culla ci stessi stretto. Mi portavano nei campi, avvertivo già da piccolo, per quanto io non ricordi nulla, il profumo della terra, i rumori della natura, il caldo estivo. Mia madre era nei campi a legare il grano, raccogliere le spighe, trasferiva gli stazzi per le pecore, metteva in pari le zolle durante la semina. Di me si prendeva cura soprattutto mia nonna che, a modo suo, mi voleva bene ma era linguacciuta e litigava sempre con mia madre che, col tempo, mi è apparsa sempre più come una vittima dei nonni. Dormivo nella stessa stanza con i miei genitori, nella stessa stanza dove c’erano anche pezzi di formaggio in salamoia. Già a 5 anni conducevo le pecore al pascolo in aperta montagna. Le mie giornate erano incubi: la paura mi accompagnava sempre: paura dei serpi, dei lupi. Ogni volta che mi sentivo chiamare temevo che qualcosa fosse successo. Ho dovuto presto imparare a mietere il grano, piantare le patate, seminare, tagliare l’erba. I miei mi avevano inculcato il senso della miseria, il pericolo di finire poveri, la paura di perdere gli amici che ci avrebbero potuto dare una mano in caso di necessità. Sono cominciate le scuole elementari e mio padre non ha mai avuto fiducia nelle mie possibilità. Pensava di farmi migliorar nella grafia con il cinturino dei pantaloni. Mi ricordo che la s non riuscivo proprio a farla. Avevo il terrore della s che, in verità, era il terrore che avevo di mio padre che pretendeva di farmi capire con la logica delle sferzate. Spesso i miei volevano che mi astenessi dall’andare a scuola, perché dovevo portare al pascolo le pecore. Io non volevo. Mi sembrava che  la scuola fosse l’unico mezzo per riscattarmi, per liberarmi dei lacci della miseria, dalla condizione di inferiorità sociale. Ma, anche a scuola, ho trovato maestre che mi hanno giudicato, quando indossavo abiti certo non firmati e talvolta rattoppati, quando mi mettevano all’ultimo banco. Condizione questa che suonava per me come emarginazione. Mi ricordo, una volta,  la maestra A., a cui ho voluto, nonostante tutto, tanto bene,  mi assegnò un compito da fare a casa. Dovevo parlare del calzolaio, io che non sapevo il significato della parola, confusi  questi con il sarto che fa i calzoni. Mi ricordo che le maestre leggevano il mio compito e ridevano. Quelle risate mi fecero tanto male e piansi senza confidare niente ai miei, perché temevo che me le avrebbero date di santa ragione. Decisi che un giorno mi sarei vendicato. Questo sogno, grazie a Dio, non si è mai realizzato. Ed io nonostante tutto ho sempre amato la vita e non mi sono mai arreso.

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