Riflettendo su H. Arendt

Le parole più importanti per capire l’ethos della politica di  H. Arendt sono tre e precisamente: il lavorare, il fabbricare e l’agire. L’uomo può lavorare anche in privato senza aver bisogno degli altri; può fabbricare un oggetto utile per sé come per gli altri, ma la sua azione non implica necessariamente che il singolo debba avere rapporti costruttivi con gli altri. L’agire, invece, costringe l’uomo ad avere rapporti, altrimenti non può dirsi attivo e né può rivelarsi agli altri nel suo valore e nella sua identità. Solo nell’agire l’uomo può rispondere alla domanda: chi sono?. Il suo agire o è un’azione contro un altro o a favore, ma, in ogni caso, lo costringe ad avere un rapporto significativo con gli altri. Del resto Aristotele ammonisce: l’uomo non può vivere da solo, perché in tal caso sarebbe o un Dio o un  animale. Ma l’uomo non è nessuno di tutte e due.  Quando l’uomo agisce, non solo opera, ma soprattutto interagisce con gli altri e quindi fa politica. Per interagire occorre costruire un linguaggio sempre più articolato, con un lessico sempre nuovo, come nuove saranno la esigenze che si vengono a creare. Questo per H. Arendt significa fare politica, questa è l’ethos della politica. La nostra identità si rivela solo quando agiamo. E ciò che si rivela agli altri è a noi sconosciuto. Gli altri dunque sono indispensabili perché la mia identità si completi. Con gli altri, si rivela, tanto per dirla con Socrate, quel daimon  che esiste dentro di noi. Il solo lavoro o la sola fabbricazione, sempre nel lessico della giornalista filosofa, portano inevitabilmente alla soddisfazione di bisogni deterministicamente intesi, bisogni di carattere familiare o di carattere personale: la casa , l’abbigliamento, la macchina o altro. Ma ciò non significa interagire con gli altri in modo significativo. Questo atteggiamento può portare ad una sorta di intimismo o di autosufficienza, quasi a dire: sto bene da solo non ho bisogno di nessuno. Tutto ciò può essere molto pericoloso. L’uomo con il solo lavoro rimane ancorato solo al soddisfacimento dei bisogni di carattere personale,  ma nulla fa per la collettività e per la ricerca del nuovo, per la progettazione del nuovo che solo apre le porte al futuro. Le conseguenze? La politica, si limita solo al soddisfacimento dei bisogni, quindi si preoccupa solo dello stato sociale. Il linguaggio diventa ripetitivo e uniforme, la consuetudine diventa la regola di tutti.  Chi si adatta è considerato normale. Chi fa politica e cerca il nuovo, diventa costruttore di libertà in libere associazioni, non può fare a meno di elaborare un linguaggio sempre nuovo e mai esaustivo, volto all’insegna del nuovo e della progettazione. Costui però è considerato anormale. Questo è lo scotto da pagare per evitare che altri decidano per noi. Insomma al vero politico non sfugge la collettività con cui intende interagire, e questi non emargina le minoranze come fa un dittatore. Oggi assistiamo a un modo di fare politica che mira all’auto – referenzialità, secondo gli schemi ormai consolidati della consuetudine di una società massificata. La politica è preoccupata solo di rispondere ai bisogni dello stato sociale che viene considerato un prezioso serbatoio di voti. Fare politica, per H. Arendt, significa, prima di tutto, costruire la libertà e non presumere di liberare l’uomo da un condizione di asservimento per transitarlo ad un’altra:  come dare una cosa per averne in cambio un’altra. Al primo posto dunque vanno messi il rispetto dei diritti, ma non di pochi e neppure di molti, ma di tutti. Agire vuol dire costruire continuamente la libertà.  Tale progetto non ha mai una fine, perché la mancanza di una ricerca collettiva è già di per sé un asservimento a chi ci propina valori cristallizzati nel tempo, quasi fossero assoluti.  Se solo di poco si abbassa la guardia, sono i pochi a decidere per i molti e la bugia diventa la parola d’ordine. E se la bugia diventa collettiva essa diventa la verità di un periodo storico e le conseguenze sono imprevedibili. Quando la collettività se ne accorge è ormai troppo tardi. Questo sarebbe successo agli ebrei durante il nazismo. Secondo H. Arendt, la prima responsabilità del genocidio va cercata nel comportamento di autosufficienza degli stessi Ebrei negli anni che precedettero il conflitto mondiale. Per fare politica, si guardi, sostiene H. Arendt,  l’Atene di Pericle, dove la democrazia diventò prassi, non asservita a nessuna teoria politica e a nessuna ideologia. Si perché le ideologie sono sterili e possono servire solo ai dittatori. Essi sono sterili perché non aprono le porte alla ricerca, in quanto si presentano come valore esclusivo ed assoluto.

 

 

 

 

 

La Banalità del Male

Il Male è banale perché non ha radici. Solo il bene ha radici profonde. Se  cerchiamo di analizzare il male vi troviamo il nulla. A commettere il male sono persone normali, anzi normalissime che hanno semplicemente seguita una bugia scambiata come verità. E durante l’esecuzione del male non si sono neppure accorti di commettere il male, per cui non hanno sentito neppure il bisogno di chiedere perdono e non capiscono neppure il perché di una condanna. Il male è come un fungo, esso cresce alla superficie senza emettere radici e si nutre della foglie marce in superficie.

Le riflessioni, in parte, sono tratte dai libri di H. Arendt: Vita Activa  (1958) e La Banalità del Male (1963)

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