Riflettendo su Schopenhauer

Spesso ci tormenta una domanda: perché vivere? A questa domanda nessuno sa dare una risposta convincente. Un’eventuale risposta non convincerebbe gli altri e, ciò che è peggio, non convincerebbe noi stessi. Secondo Schopenhauer, la risposta non c’è. Vivere significa soffrire, senza saperne il motivo, proprio come quell’anziano pastore che attraversa scalzo il deserto e porta su di sé un fascio di legna per riscaldarsi la sera, trascinando con sé le pecore da un luogo ad un altro del deserto e, a notte fonda, si riposa e, il giorno dopo, il tutto si ripete senza alcuna novità, proprio come la luna nel cielo ad “ire lo stesso calle”. Muore e sarà ricoperto da una duna e dimenticato per sempre. Il mondo che ci circonda è una nostra rappresentazione, ovvero solo una nostra illusione, un nostro modo di vedere le cose che non trova nessun riscontro oggettivo. Per rappresentarcelo ci serviamo di alcune forme a priori della sensibilità come lo spazio, il tempo e la categoria della causalità vissuta in quattro modi diversi: come divenire, se qualcosa si muove noi immaginiamo una causa; come necessità logica, data una premessa non vi può essere che una sola conseguenza; come una necessità logico – aritmetica, dati due numeri il risultato di una somma non può essere che uno; secondo una dimensione etica, se agisco così, vuol dire che c’è una ragione che mi spinge a scegliere in un modo piuttosto che in un altro. Delle volte, il mondo e la società ci appaiono come un miracolo, l’universo come una composizione armonica; spesso ci prende il sogno della giustizia, dell’amore, della felicità, ma son tutte solo illusioni, inganni, perché la realtà è coperta da un velo, il velo della menzogna, diciamolo meglio, dal velo di Maya. Ma che c’è sotto questo velo?  Kant riteneva che a noi ci è possibile solo la comprensione fenomenica delle cose, su cui poggerebbe le basi la scienza moderna, ma ci sfugge il noumeno, ovvero l’essenza delle cose. Kant aveva  cercato di porre rimedio a questo dualismo nella Critica della Ragion Pratica, invocando i postulati che, in qualche modo, giustificherebbero l’azione etica. Per Schopenhauer, il noumeno è a portata di mano, perché siamo corpo e come tale ci scopriamo desiderio cieco da cui non possiamo sottrarci: siamo attratti dall’altro sesso,  rincorriamo l’altro finché ci serve, cinicamente ci piace farlo soffrire, siamo gelosi che alcuni ci scalzi, per cui immaginiamo la vendetta  e così via. Ci comportiamo proprio come la mantide religiosa che, mentre si accoppia, divora il maschio, cominciando dalla testa. La felicità è solo un’illusione, in nome della quale, lottiamo, ci disperiamo, rincorriamo fantasmi, inganniamo gli altri, ma, poi, tutti facciamo l’esperienza dello “scacco matto” e cadiamo sulla nostra stessa disperazione, diventando macerie di noi stessi. La volontà di cui parla il pensatore è cieca, irrazionale, unica e coinvolge tutte le creature. Tutte le creature desiderano, tutti, ma proprio tutti non cessano mai di desiderare, si,  proprio come in un vortice diabolico. Finiamo così col desiderare di desiderare, pur di non annoiarci. La vita, insomma, è come un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Il sabato lo salutiamo con gioia, perché ci proietta nel futuro della domenica che noi immaginiamo un giorno particolare, di sollazzo ma, arrivata la domenica, ciascuno “col proprio pensiero farà ritorno al  travaglio usato”. Cocente delusione!….Possiamo liberarci da questa asfissia esistenziale che ci impone di volere? Schopenhauer propone una strada, la strada della redenzione. Ma è inutile illudersi, il tutto si tramuta in una grande delusione. Al primo gradino c’è l’arte. Con l’arte noi non scorgiamo le cose in riferimento al nostro egoismo, in riferimento alla nostra utilità, ma annientiamo noi stessi e nelle cose vi scorgiamo idee, essenze, modelli, fuori dallo spazio e dal tempo e fuori dai rapporti necessari di causa – effetto. Cosa scorgo, stante all’immaginazione del poeta, oltre la siepe? “Infiniti spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete”. Travolgente è il bisogno di evadere le porte del finito per cogliere l’eterno, l’infinito. Ahimè!…E’ solo un’illusione, perché basta uno stormire di foglie, perché tutto ritorni come prima. Il grado successivo: la giustizia, ma questa non ci aiuta a perdere del tutto il nostro egoismo o come meglio dire il  “principium individuationis”; poi, l’agàpe, ovvero la compassione… già ma il compatire è anche patire.  Allora!…. In tal caso la liberazione sarebbe solo parziale. Bisognerà avere il coraggio di provare orrore per il dolore universale; scegliere la castità, schierandosi contro l’impulso di generare nuove vite votate al dolore; scegliere la strada della povertà volontaria, della rassegnazione, del sacrificio e dell’allontanamento dagli oggetti o persone care al nostro egoismo. Questa, secondo il pensatore, l’ascesi, l’unica strada percorribile, l’unica strada “quietiva” il desiderio cieco. Questa sarebbe la strada della noluntas o paranirvana.

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